Ogni 27 gennaio porta con sé le celebrazioni, più o meno retoriche e sincere, della liberazione dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. Dal 1945 i lager non sono scomparsi, anche senza le aquile del Terzo Reich come insegna, sopravvivono perfino nei paesi occidentali e democratici. Un pugno di canzoni che collega le sofferenze degli internati di 70 anni fa con quelli di oggi.
1 FRANCESCO GUCCINI – LAGER
2 ALESSANDRO LEDDA E NICOLA PECCI- JAWOHL
3 PAOLO CAPODACQUA – I NIDI DEGLI UCCELLI
Guccini è famoso per aver scritto la più celebre canzone sui campi di concentramento, ma oltre ad “Auschwitz” ne scrisse anche una in cui cerca di dare una definizione di “lager”. Il cantautore emiliano nel testo ripete spesso un interrogativo che lo porta di strofa in strofa ad aggiungere elementi caratterizzanti i campi di concentramento: “Cos’è un lager?”.
“E’ una cosa nata in tempi tristi, / dove dopo passano i turisti / occhi increduli agli orrori visti / non gettar la pelle del salame!”. “Cos’è un lager?”
In “Metropolis” trova posto la canzone che, oggi come allora, mostra come l’uomo progetti ed eriga luoghi preposti all’annullamento dei diritti e delle personalità. “È una cosa come un monumento, / e il ricordo assieme agli anni è spento / non ce n’è mai stati, solo in quel momento, / l’uomo in fondo è buono, / meno il nazi infame!”. Guccini con voce dura e spietata assume talvolta un tono spiccatamente ironico. Ma non vuole assolutamente sminuire la ferocia nazi-fascista, quanto più suggerisce che anche nazioni democratiche hanno riprodotto trattamenti disumani analoghi. “Il fenomeno ci fu. È finito! / Li commemoriamo, il resto è un mito! / l’hanno confermato ieri giù al partito, / chi lo afferma è un qualunquista cane”.
Le parole del brano risultano semplici, la difficoltà per l’ascoltatore sta nell’attribuire ad ogni verso la giusta dose di ironia e di serietà dell’autore. “Cos’è un lager? / È una cosa sporca, cosa dei padroni, / cosa vergognosa di certe nazioni / noi ammazziamo solo per motivi buoni, / quando sono buoni / Sta a noi giudicare”.
“Cos’è un lager?”. Con un tono più disteso, quasi soave, invece l’autore della “Canzone del bambino nel vento” propone un elenco di fatti e considerazioni oggettive, figlie di foto e testimonianze, per rispondere alla domanda che torna impellente a intervallare ogni strofa: “Sono mille e mille occhiaie vuote, / sono mani magre abbarbicate ai fili / son baracche e uffici, orari, timbri, ruote, / son routine e risa dietro a dei fucili / sono la paura l’unica emozione, / sono angoscia d’anni dove il niente è tutto / sono una pazzia ed un’allucinazione / che la nostra noia sembra quasi un rutto”. Ma la riflessione che portano sicuramente non ha fatto presa nell’opinione pubblica: “Sono il lato buio della nostra mente, / sono un qualche cosa da dimenticare / sono eternità di risa di demente, / sono un manifesto che si può firmare / è un lager”.
Guccini smonta pezzo per pezzo le giustificazioni che ancora oggi legittimano i nuovi lager, commemorare la liberazione di Auschwitz senza vedere cosa accada nel presente è alquanto sterile, “Son recinti e stalli di animali strani, / gambe che per anni fan gli stessi passi / esseri diversi, scarsamente umani, / cosa fra le cose, l’erba, i mitra, i sassi / ironia per quella che chiamiamo ragione, / sbagli ammessi solo sempre troppo dopo / prima sventolanti giustificazione, / una causa santa, un luminoso scopo”.Sul finale la definizione di campo riservato ad esseri non più umani viene estesa, lasciando un angosciante monito: “Sono la curiosa prassi del terrore, / sempre per qualcosa, sempre per la pace / sono un posto in cui spesso la gente muore, / sono un posto in cui, peggio, / la gente nasce”.
2 ALESSANDRO LEDDA E NICOLA PECCI – JAWOHL
Nel 2009 esce nelle librerie il cofanetto “Nessuna pietà”, si tratta di un libro a cui è allegato un CD che contiene dieci canzoni. Ogni traccia vuole tener viva la memoria e il ricordo della crudeltà di crimini e progetti sanguinari di cui gli uomini si sono macchiati; dal genocidio dei nativi americani, ai desaparecidos, passando per Hiroshima e i bambini vittime della guerra. Dieci canzoni interpretate da dieci artisti che raccontano stragi ed eventi tramite i testi di Marco Vichi, volutamente crudi, senza pietà appunto.
“Ventimila ombre si staccano dal suolo / Scheletri e fantasmi senza un suono / Occhi di bestia nel cranio rasato / All’alba allineati sul fango congelato”. Alessandro Ledda, accompagnato dalle musiche di Nicola Pecci, in “Jawohl” racconta il sistema di concentrazione nazista. “Ventimila ombre a strisce sotto il cielo / Ventimila ombre nude contro il gelo / Commercio di miseria / Di vendette e di ossessioni”. Con un rock alternativo, sfruttando molto le capacità del cantante, si fanno carico di raccontare gli elementi della permanenza nei campi: le divise a strisce coi numeri ad indicare l’assenza di una identità, il freddo opprimente e l’attesa logorante che soffocava ogni idea di futuro: “Né odio né speranza / Solo il tempo nel tempo che avanza / Né uomo né animale / Solo un filo di fumo che sale”. Il titolo è una parola tedesca che seguiva ogni ordine degli aguzzini dei campi ovvero: “Jawohl”, che si può tradurre “signorsì”. “Ombre attenzione / Oggi è il giorno della selezione / Chi resta avrà in regalo le sue ossa / Nessuno marcirà dentro una fossa / Fumo grigio sale fino al cielo / L’aria nebbiosa è il loro cimitero”.
“Jawohl, Jawohl, Jawohl, Jawohl”. Il monito dei campi nazi-fascisti sembrava dovesse essere eterno, ma col passare degli anni teorie e studi negazionisti si sono diffusi e dunque:“Ombre sparite / Hanno deciso che non esistete / Ombre ora basta / Siete un’invenzione / Questa è davvero l’ultima benedizione”.
3 PAOLO CAPODACQUA – I NIDI DEGLI UCCELLI
Paolo Capodacqua, classe 1961, è un cantautore che per il passato ha tradotto e interpretato Georges Brassens e da diversi anni scrive canzoni per bambini, per le quali ha ricevuto anche dei riconoscimenti. Nel suo spettacolo “La torta in cielo” propone poesie e filastrocche di Gianni Rodari da lui musicate. Anche la sua canzone dedicata ad un tema cupo e serio, come quello della deportazione nei campi di concentramento, ha un suono dolce e toccante. “Io ricordo il cielo stellato / Quella notte che cadde a pezzetti / Il rumore del legno spezzato / E il latrato dei cani sui tetti”. Il testo, esplicito e puntale, mostra le tappe percorse, presumibilmente da una figlia col proprio padre, dal prelevamento nella loro abitazione fino all’ingresso in un lager. “Principessa, ti devo svegliare / Devi scendere in fretta dal letto / Che per noi oggi è un giorno speciale / Che si parte, ma senza biglietto”.
La canzone si intitola “I nidi degli uccelli” ed è presente nell’album “Ferite&Feritoie” del 2019, del brano è stato creato anche un video da alcune classi di un liceo artistico di Lecce. La clip raffigura fedelmente le scene, partendo dalle parole di Capodacqua, un ottimo lavoro di immagini che accompagna suoni e parole.
“Ed è un viaggio che porta lontano / Chiudi gli occhi e comincia a contare / Chiudi gli occhi e dammi la mano / Che si parte per non ritornare”. Finalmente la penultima strofa svela il senso del titolo, un’espressione che sfrutta l’ingenuità e l’ottimismo dei bambini per narrare la carneficina dei lager: “Principessa, non ti riconosco / Dove sono i tuoi capelli? / «Li han tagliati e gettati nel bosco / E oramai sono nidi d’uccelli»”.
“E per voi che restaste a guardare / Ignorandoci senza riguardo / E per voi che ora osate negare / Vi si appunti nel petto il mio sguardo”, nei quattro versi finali il narratore ci rivolge la parola e accusa senza mezzi termini gli indifferenti e chi nega che la Soluzione finale abbia mai avuto inizio.
EN.RI-OT